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venerdì 11 marzo 2016

La scurdijata


La scurdijata è forse il piatto che meglio rappresenta il Salento contadino e povero dei nostri nonni, dove il cibo era sacro e buttare gli avanzi era un sacrilegio.
E' proprio dagli avanzi che nasce questo piatto antico e tanto gustoso che veniva consumato all'alba prima di una dura giornata di lavoro.
Nel Salento la scurdijata ha nomi diversi a seconda di dove ci si trova, da marenna, a scarfatu, a muersi, a cecamariti (così definiti perché le donne riuscivano a prendere per la gola i mariti, che tornavano stanchi dalla campagna, con una pietanza tanto buona che lasciava immaginare una lunga preparazione, mentre era invece realizzata con gli avanzi in poco tempo. I mariti ingenuamente immaginavano le mogli impegnate per una giornata intera a preparare per loro, e le consorti invece se la chiacchieravano beate con le comari e le vicine fino a poco prima del loro rientro dai campi!).
Gli ingredienti della scurdijata sono la verdura avanzata dal giorno prima, solitamente verdura di campagna, fagioli, piselli secchi, ceci o fave cotti alla pignata (cotti cioè nella tradizionale pentola di coccio insieme agli aromi che si preferiscono) e pane raffermo.




In un tegame si mette a scaldare abbondante olio con aglio o cipolla e peperoncino, poi si ci buttano dentro le verdure e si fanno saltare e dopo qualche minuto si aggiungono i legumi, si mescola e si continua la cottura a fuoco lento.
Nel frattempo, a parte si frigge il pane raffermo tagliato a tocchetti e poi lo si aggiunge al misto di verdure e legumi, lasciando amalgamare il tutto ancora un po'.


Io ho preferito evitare di friggere il pane e l'ho tostato, il risultato è stato parimenti buono, ma inutile dire che chi lascia la via vecchia per la nuova... Non ci sono dubbi, il pane fritto è da preferirsi!

lunedì 22 febbraio 2016

Pitta di patate alla leccese


La pitta di patate è uno dei piatti più tipici della tradizione contadina del Salento, che si tramanda di generazione in generazione mantenendo intatta l'intensità dei suoi sapori, dovuta ad ingredienti semplici e poveri, ma proprio per questo, forse, più intriganti.
La pitta si compone di due morbidi strati di patate, farciti con abbondante cipolla, olive nere, capperi e pomodori. Ad insaporirne ulteriormente il gusto ci sono poi la menta ed il pecorino salentino stagionato che vanno ad arricchire l'impasto.
Il periodo ideale per la preparazione della pitta è quello della raccolta ordinaria delle patate, la primavera, quando il sole inizia a scaldare le giornate e a far sudare la fronte.
E' in primavera che le donne salentine da sempre fanno scorta delle migliori patate novelle sieglinde di Galatina appena raccolte e si sbizzarriscono, oggi come ieri, ad inondare la casa dei profumi della pitta appena sfornato o dei panserotti appena fritti.
Le coltivazioni extrastagionali delle patate, consentita dal clima mite di alcune aree geografiche tra cui il Salento, tuttavia, fanno sì che delle patate sieglinde si possa ormai disporre per almeno otto mesi l'anno, per cui non è indispensabile aspettare le stagioni più calde per poter mangiare la pitta.
Io infatti l'ho preparata a febbraio: avendo trovato le sieglinde dal fruttivendolo il collegamento mentale con la pitta è stato immediato.
Come dicevo, gli ingredienti della pitta sono molto semplici:scrivo gli ingredienti per sei persone, anche se nella realizzazione della mia pitta ho raddoppiato le dosi.

1,5 kg di patate a pasta gialla (io sieglinde di Galatina)
4 uova
200 g di pecorino salentino ben stagionato (in alternativa va bene anche il parmigiano)
una manciata di pangrattato
un'abbondante manciata di menta (io secca)
sale
pepe

Per il ripieno
1 kg di pomodorini in scatola
due belle cipolle
2 cucchiai di capperi
1 manciata di olive nere denocciolate (ideali le celline)
prezzemolo
origano
sale

Ho lessato le patate.


Ancora calde, le ho spellate e passate allo schiacciapatate: sono operazioni queste che se fatte subito risulteranno più veloci e facili, se si esclude il fatto che per sbucciare le patate ci si pela le dita!

In attesa che le patate si raffreddassero, ho iniziato a preparare il ripieno.
Ho affettato sottilmente le cipolle e le ho fatte appassire lentamente in olio d'oliva ben caldo.


Poi ho aggiunto i capperi, le olive snocciolate, una spolverata di origano, prezzemolo tritato e i pomodorini e ho fatto cuocere per una ventina di minuti. Quando i sapori mi sono parsi ben amalgamati ho spento il fornello ed ho fatto raffreddare.


Ho poi ripreso le patate lessate e schiacciate, che nel frattempo si sono intiepidite, ho aggiunto le uova, il formaggio grattugiato, la menta (l'ideale sarebbe fresca, ma va bene anche quella secca), il sale ed il pepe, avendo cura di aggiungere anche un po' di sugo per colorare un po' ed insaporire ulteriormente l'impasto. Se questo dovesse risultare troppo morbido, conviene aggiungere una manciata di pangrattato.



Ho impastato tra loro gli ingredienti finché non ho ottenuto un bel composto omogeneo.
Poi ho preso una teglia, l'ho unta di olio e, dopo aver bagnato le mani (passaggio indispensabile se si vuole evitare che l'impasto si appiccichi tutto), ho steso un primo strato uniforme di patate, cercando di ottenere i bordi laterali.


Ho versato il condimento di pomodori e cipolle, distribuendolo su tutta la base


Ho aggiunto un po' provola dolce a pezzetti, passaggio non previsto dalla ricetta tradizionale, ma visto che ce l'avevo ho voluta aggiungerla, tanto male non fa!


Infine ho ricoperto con lo strato finale di impasto, livellandolo con le mani unte d'olio. Ho spolverato di pangrattato ed messo in forno a 180° per una cinquantina di minuti.


La pitta è pronta quando la superficie risulterà ben dorata e croccante.


L'ideale sarebbe servire la pitta quando è tiepida, perché se troppo calda diventa quasi impossibile da porzionare. Se poi dovesse avanzare, consumata il giorno dopo, secondo me diventa ancora più buona: i sapori si saranno ben amalgamati, l'impasto risulterà più compatto e gustarla diventerà ancora più piacevole.
Ottima come antipasto o come piatto unico, non si può venire nel Salento senza assaggiare la pitta di patate!


venerdì 15 gennaio 2016

Carciofi ripieni alla salentina


E' iniziato il meraviglioso periodo dei carciofi, che per una vita non ho gradito e che ora mangerei a pranzo e a cena, se non fosse che ora che li amo, ovviamente (mai una gioia nella vita!), il mio colon si irrita se eccedo con le fibre!!!
Ma quanno ce vo', ce vo': il mio colon dovrà farsene una ragione.
Così, ho impavidamente deciso di preparare uno dei piatti più buoni della tradizione culinaria salentina: i carciofi ripieni.
I carciofi che ho utilizzato non sono, però, i nostri carciofi brindisini, ma i tondi carciofi romaneschi, che, devo dire, hanno comunque dimostrato di sapersi adattare benissimo anche alla ricetta salentina.



Per 8 persone ho utilizzato:
20 carciofi,
4 uova,
300 g di formaggio grattugiato (metà parmigiano, metà pecorino)
300 g di pane grattugiato,
due cucchiai di capperi sottaceto,
otto cucchiai di olive nere snocciolate (sarebbero ideali le celline nere, snocciolate)
abbondante prezzemolo tritato,
olio,
sale,
pepe.

Ho iniziato col pulire i carciofi, eliminando le foglie esterne più dure e tagliando le punte di quelle più tenere. Dopo aver eliminato la peluria interna, ho messo i carciofi in una ciotola con acqua e limone.


Ho poi pulito i gambi, eliminandone la parte terminale e lo strato più esterno e li ho tagliuzzati a fettine piuttosto sottili.


Sono poi passata alla preparazione del ripieno. In una ciotola ho mescolato i due formaggi col pan grattato, ho aggiunto le uova, il sale, il pepe, l'abbondante prezzemolo tritato, i capperini, le olive tagliate a metà, le fettine di gambi di carciofo ed un po' d'olio d'oliva. Ho impastato il tutto, per far amalgamare bene gli ingredienti.


 Passaggio successivo è stato quello del riempimento di carciofi. Li ho tolti dall'acqua, li ho fatto scolare, dopodiché ho allargato le foglie verso l'esterno, in modo da creare dei vuoti all'interno dei quali inserire il ripieno.


Dopo averli riempiti, ho poi sistemato i carciofi all'interno di una teglia, ben serrati l'uno all'altro. Ho aggiunto due dita di acque, ho irrorato con olio d'oliva ed ho iniziato a cuocere sul fornello fino a quando l'acqua ha iniziato ad evaporare ed i carciofi ad ammorbidirsi.


Infine, ho passato la teglia in forno per completare la cottura, fino a quando la superficie dei carciofi non mi è parsa ben dorata.


Ho accompagnato i carciofi ripieni con un contorno di cotolette di peperoni al forno (la ricetta la scriverò in un'altra occasione).
Dal Salento per ora è tutto, passo ...la ricetta e chiudo!





giovedì 31 dicembre 2015

Purciddhuzzi al miele



Non credo esista casa nel Salento dove, durante le feste di Natale, non si porti a tavola un bel piatto di purciddhuzzi, dolci tipicamente natalizi, che dovono il proprio nome probabilmente alla loro forma "a maialino". Ho letto che nel tarantino ne attribuiscono l'appellativo alla tradizione di consumare l'ultimo purciddhuzzu nel giorno di Sant'Antonio Abate, che segna l'inizio del periodo di carnevale e che viene raffigurato con un maialino al seguito.
Ancora una volta, le ricette della tradizione traggono i loro ingredienti principali da ciò che offre la nostra terra: grano, olio, miele e frutta secca. Ogni località del Salento ha la propria ricetta di purciddhuzzi, c'è chi usa il lievito e chi no, chi impasta col vino bianco e chi no, ciò che non cambia da posto a posto è il piacere di ritrovarsi in famiglia per prepararli e poi per mangiarli insieme.
I purciddhuzzi, per il solo fatto di esserci, allietano le tavole e gli animi, con loro a tavola è festa!
Come per ogni famiglia, anche la mia ha la sua ricetta, che a me è stata consegnata da mia zia Candida, a mia zia da mia nonna e così fino a perderne le tracce.

Gli ingredienti della nostra ricetta sono:
1 kg di farina di semola di grano duro
250 g di farina 00
100 g di olio d'oliva
170 g di olio di semi o 250 g di margarina (questa è una variante introdotta da mia zia, mia nonna invece usava solo 250 g di olio d'oliva)
1 pizzico di sale
1 lievito di birra (io uso quello in polvere)
la buccia grattugiata di un limone e di un arancia
acqua q.b.

Per la mielatura:
1 kg miele
300 g zucchero semolato
150 g acqua
cannella in polvere

Mescolare le due farine insieme al lievito in polvere e passarli al setaccio, dopodiché disporli a fontana e versarvi al centro l'olio d'oliva e l'olio di semi (qui la margarina ammorbidita), le bucce degli agrumi ed il pizzico di sale.



Iniziare ad impastare e dopo aver incorporato tutti gli ingredienti, aiutarsi con un po' di acqua per rendere l'impasto lavorabile. Impastare fino a che il composto non appare elastico e morbido.


Dividere l'impasto in più parti e ricavarne dei bastoncini di più o meno un centimetro di diametro


e poi ricavarne dei gnocchetti lunghi anche loro più o meno un centimetro. Successivamente, utilizzando un tagliere riga gnocchi, schiacciare con le dita i pezzetti di impasto per incavare i nostri purciddhuzzi.


Dopo che questa fase è terminata, friggere in abbondante olio d'oliva, avendo l'accortezza di iniziare dai purciddhuzzi che si sono incavati per primi, perché questi intanto hanno ripreso la lievitazione e sono pronti per essere fritti.




Passiamo ora alla fase finale, quella della mielatura.
Mettiamo in un pentolino tutti gli ingredienti: il miele, lo zucchero, la cannella e l'acqua. A fiamma bassa, portiamoli ad ebollizione, rigirando spesso.


Il miele è pronto quando, preso tra pollice ed indice, fila.


A questo punto, si versano nel pentolino i purciddhuzzi in piccole quantità, li si rigira in modo che si impregnino ben bene di miele e poi con un mestolo forato, dopo averli fatti scolare del miele in eccesso, vengono adagiati su un piatto.




Ovviamente con le dosi che vi ho dato di piattini di purciddhuzzi al miele se ne otterranno un bel po', ma posso assicurare che durano molto poco. In casa mia li abbiamo già rifatti per la seconda volta: tra quelli che si regalano a parenti ed amici e quelli che si sgranocchiano nei dopo cena natalizi, i purciddhuzzi durano pochissimo.
Solitamente i purciddhuzzi vengono decorati con codette colorate, ma non essendo queste di mio gradimento, io preferisco utilizzare solo mandorle tostate che rigiro nel miele e poi spargo sui dolcetti, pinoli anch'essi tostati e pezzetti di cannella. 




domenica 27 dicembre 2015

Pampasciuni fritti (Lampascioni fritti)


Questa sera finalmente i miei amici Salvatore e Stefania ci hanno fatto assaggiare i pampasciuni fritti, di cui ci hanno sempre parlato come di una squisitezza oltre che buona anche molto bella da vedere. Beh, in effetti non posso che dargli ragione!
I pampasciuni, i lampascioni, il cui nome scientifico è Muscari Comosum (ma anche Leopoldia Comosa), appartengono famiglia delle Liliaceae. Crescono anche spontaneamente nei terreni 
pianeggianti delle regioni meridionali, soprattutto Puglia e Basilicata e presentano un fiore violaceo che sboccia dalla primavera alla fine dell'estate, mentre il bulbo si sviluppa sotto terra ad una profondità dai 10 ai 20 centimetri.



Il bulbo, che è la parte commestibile del lampascione, ha la forma di una piccola cipolla ed ha un gusto particolarmente amarognolo. Le sue dimensioni solitamente si aggirano su uno due centimetri di diametro e dieci venti grammi di peso, anche se a volte capita di trovarne anche di quattro centimetri di diametro e di 35-40 grammi di peso. 



Praticamente sconosciuti nel resto d'Italia, i pampasciuni fanno parte della tradizione culinaria del meridione, soprattutto del salento, dove, nella bellissima cittadina di Acaya, la Madonna Addolorata, diviene Madonna dei Lampascioni, la cui ricorrenza si ripete ogni primo venerdì di marzo e la celebrazione religiosa si integra con la tradizionale fiera, nonché sagra dei lampascioni, degustati in tutti i modi. 
Molteplici sono le proprietà benefiche di questo bulbo. Già noto ad Egizi, Greci e Romani, le sue virtù furono sperimentate sin dal I secolo d.C. dal famoso medico greco Galeno, che lo prescriveva come diuretico, lassativo e depurativo e, in seguito, anche da molti altri scienziati dell'antichità, tra cui Plinio e Teofrasto.
Sono ricchi di acqua, di fibre, di potassio, di calcio, di fosforo, di ferro, di rame, di manganese e di magnesio, sono assolutamente ipocalorici, avendo solo 30 calorie ogni 100 grammi, riducono il rischio di cardiopatie, sono consigliati dai dietologi per chi soffre di stitichezza, contribuiscono ad abbassare i grassi e gli zuccheri nel sangue, a prevenire la formazione di trombi e ad abbassare la pressione. Inoltre, il lampascione stimola l’appetito e attiva le funzioni gastriche, stimola la secrezione biliare, pulisce gli intestini e previene il cancro intestinale. E’ poi dotato di potere antinfiammatorio e antimicrobico, è utile particolarmente nei casi di infiammazione della vescica e dell’intestino, riduce il colesterolo. Gli antichi romani ritenevano persino che il lampascione fosse un potente afrodisiaco e sembra che per questo motivo fosse d’augurio portarlo in tavola nel corso dei banchetti nuziali.
La più imbarazzante delle controindicazioni dei lampascioni è il meteorismo che esso provoca, che rende difficile la socializzazione nelle ore successive al suo consumo!

Bene, torniamo ai pampasciuni fritti, Salvatore ha prima pulito ben bene i bulbi, privandoli della pellicina esterna e delle radici, poi li ha lavati più volte in acqua fredda, sia per eliminare residui di terriccio, sia per fargli perdere un po' del loro tipico gusto amarognolo, infine ha inciso l'estremità superiore dei lampascioni, facendo un bel taglio a croce, profondo fin quasi la metà del cipollotto.


A questo punto, è subentrata Stefania, che ha fritto i pampasciuni in abbondante olio, trasformandoli in delle vere e proprie rose dorate e profumatissime di buono.


Quando l'olio è giunto a temperatura, Stefania vi ha buttato i bulbi, avendo l'accortezza di friggerli a testa in giù, fino a quando non si sono aperti bene. Dopodiché li ha messi a scolare dall'olio in eccesso e per finire li ha salati.



Esperienza splendida, ho visto il brutto anatroccolo trasformarsi come per incanto in cigno e ho scoperto un gusto fantastico: l'amarognolo dei lampascioni a cui sono abituata si percepisce appena, si avverte solo un forte desiderio di mangiarne un altro e un altro ancora ...fino a che non ci si ricorda che, come disse Rossella O'Hara in Via con vento, "...domani è un altro giorno..." e che bisogna stare attenti alle ...correnti d'aria!


sabato 26 dicembre 2015

Pitteddhe salentine


Le pitteddhe, insieme alle chinuliddhe,  ai purciddhuzzi ed alle carteddhate, sono dolcetti salentini tipici del periodo di Natale. Come tutte le ricette della tradizione, gli ingredienti di queste crostatine sono semplici e genuini, solo farina, olio, buccia di limone o di arancia, cannella e un pizzico di sale: caratteristico e molto gustoso è il contrasto tra la base salata della frolla e il dolce del ripieno. Le pitteddhe, infatti, per tradizione vengono farcite con mostarda d'uva, cioè con una mamellata di uva da vino, ma va benissimo qualsiasi altro tipo di marmellata, meglio se fatta in casa. Se vengono tenute ben chiuse, le pitteddhe possono essere conservate per diversi giorni senza perdere la loro fragranza. 

Gli ingredienti:
300 g di farina di semola di grano duro
200 g di farina 00
100 g di olio d'oliva
la buccia grattugiata di un limone
cannella
un cucchiaino di sale
acqua o latte q.b.
un vasetto di mostarda d'uva o di altra marmellata

Dopo aver passato al setaccio le due farine, disponiamole a fontana su una spianatoia, aggiungendovi la buccia di limone grattugiata, la cannella, il sale e l'olio e mescolare insieme gli ingredienti. Per rendere l'impasto lavorabile, ci aiuteremo con acqua o latte tiepidi, facendo attenzione a dosarne le quantità: l'impasto deve risultare elastico, ma non troppo morbido. 
Stenderemo poi l'impasto con un mattarello, cercando di ottenere una bella sfoglia sottile.


Con l'aiuto di un coppapasta o di una tazza dal diametro di circa 8-10 centimetri, ritaglieremo dei dischetti, al centro dei quali disporremo una cucchiaiata di marmellata, dopodiché pizzicheremo i bordi per ottenere dei cestini. 


La mia nonna usava abbellire le pitteddhe con dei ritagli di pasta ed io ho seguito il suo esempio, ponendo al centro una stellina di frolla. 
Le pitteddhe vanno infine messe in forno a 180°, per 13-15 minuti col mio forno, comunque sia fino a che non appaiano ben dorate e croccanti.


Bene, il dolcetto ce l'ho, la ricetta ve l'ho data, ora non mi resta che augurarvi un felice Santo Stefano.
A risentirci presto!

giovedì 17 dicembre 2015

Tria cu li mugnuli (tagliatelle con i broccoli)

Le Tria cu li mugnuli è un piatto povero, tipico della cucina tradizionale salentina, fatto con pasta fresca tipo tagliatelle senza uova, e i mugnuli che sono dei broccoli spontanei coltivati da sempre nel Salento, molto salutari in quanto ricchi di indoli, sostanze la cui assunzione è importante per la prevenzione di certi tumori a carico dell’apparato digerente. Inoltre sono ricchi di zolfo, sodio, potassio, magnesio, acido folico e vitamine. I mugnoli si distinguono dal cavolo broccolo, poiché presentano un'infiorescenza sensibilmente più piccola e meno compatta, che potrebbe essere confusa con quella della cima di rapa ed hanno fiori di colore bianco. I mugnuli hanno un gusto più dolce del cavolo e possono essere consumati da novembre a marzo: la tria infatti è un piatto tipicamente invernale.




Gli ingredienti della tria cu li mugnuli sono (per 8 persone):
2 Kg di mugnuli
olio 
cipolla
sale 

per la tria:
800 g di farina di semola di grano duro
acqua 
sale 

Una volta eliminate le foglie e i gambi più duri dei mugnuli, dopo averli lavati per bene con acqua fredda li si fa sgocciolare per eliminare l'acqua in eccesso. 
In una pentola scaldare abbondante olio d'oliva e farvi imbiondire della cipolla bianca, poi buttarvi i mugnuli e farli soffriggere, sistemando di sale e aggiungendo un po' d'acqua fino a completare la cottura della verdura. Per chi lo gradisce, sarebbe auspicabile aggiungere alla cipolla anche del peperoncino, perché la tria per essere buona dovrebbe essere piccantina. 
Quando i mugnuli giungono a cottura spegnere il fornello.



Passiamo ora alla preparazione della tria. 
Sistemiamo la farina a fontana, ci aggiungiamo il sale  gradualmente l'acqua ed iniziamo ad impastare, fino ad ottenere un impasto elastico, ma non morbidissimo. 



Raggiunta la giunta consistenza, iniziamo a tirare la sfoglia, facendo attenzione a non renderla troppo sottile, la tria la si deve sentire "sotto i denti". Una volta stesa, la spolveriamo di farina e la arrotoliamo su se stessa


per poi tagliarne delle striscioline della larghezza più o meno di un centimetro


che poi, srotolate e cosparse di ulteriore farina vengono messe a riposare su un vassoio per almeno una mezz'oretta.

A questo punto allunghiamo con dell'acqua i mugnuli precedentemente cotti e portiamo a bollore, dopo di che vi aggiungiamo la tria, facendo però attenzione a dosare la quantità di acqua: troppa renderà il piatto troppo brodoso, poca lo renderà colloso, per questo la gradualità dell'aggiunta è fondamentale.




Quando la tria sarà cotta e l'acqua di cottura asciugata, spegnere il fornello e portare a tavola. 
La tria è buonissima ovviamente se mangiata calda calda e accompagnata da un buon vino rosso, magari salentino!




P.S. Ovviamente, in mancanza di mugnuli, chi lo desiderasse potrebbe comunque realizzare un'ottima tria anche con i comuni broccoli.